Hans Schabus
A bridge over troubled water, underneath a ramp towards the harbour and behind a wall of a canal (a passage)

27 ottobre 2017

Dopo un periodo di residenza in città, l’artista viennese inaugura un nuovo progetto specifico che viene realizzato durante la settimana di lavoro con 5 giovani artisti residenti in Toscana selezionati da una call. Andisheh Bagherzadeh, Simone Palmaccio, Giulio Saverio Rossi, Gabriele Germano Gamurro, Eleonora Rotolo partecipano al laboratorio di Schabus legato alla pratica del luogo, al possibile e percorribile, all’idea di scultura sociale performativa, all’indagine di un presente fatto di nuove e necessarie aggregazioni sociali.

Nasce « a bridge over troubled water, underneath a ramp towards the harbour and behind a wall of a canal (a passage) », titolo di un intervento che si articola a partire da un elemento architettonico, il ponte, nello specifico « il ponte della dogana” nascosto dal cavalcavia che attraversa i Magazzini Generali, dove ha sede l’associazione Carico Massimo.

Il ponte come anello di congiunzione e snodo di una città circondata dal mare e attraversata da ponti che collegano il centro ai suoi margini, il mare alla terra, determinando derive e approdi.


foto: Nattan Guzmán (vedute dell’istallazione)
Juan Pablo Macías (processo)


Eva Brioschi

A bridge over troubled water, underneath a ramp towards the harbor and behind a wall of a canal (a passage)

Considero la pratica di Hans Schabus emblematica di cosa significhi fare arte oggi. Credo che una delle peculiarità dell’arte sia infatti quella di produrre pensiero, indurre le persone
a riflettere, e nel fare questo offrire punti di vista inattesi, scuotendo le certezze interpretative e sollecitando il nostro senso estetico.

Se l’arte fosse solo pensiero però, Hans avrebbe potuto scrivere dei trattati per raccogliere
le sue riflessioni, i suoi dubbi, le sue domande. Ma Hans è un artista, non un filosofo e la
sua mente, quando pensa, crea immagini ed esperienze.

Hans Schabus lavora spesso partendo da un contesto preciso, un luogo dove è stato invitato per una mostra, un paese che lo ha accolto per una residenza, un progetto che nasce dalla criticità di un territorio (non per forza bello o pittoresco, non sempre con una storia importante e risonante, quasi mai privo di conflitti e contraddizioni). E’ così che Hans è approdato a Livorno nell’autunno 2017, invitato da Carico Massimo ha tenere un workshop con cinque giovani artisti residenti in Toscana.

Carico Massimo è uno spazio indipendente, fondato nel 2012 da un gruppo di artisti e curatori, situato negli ex Magazzini Generali del Porto di Livorno. Carico Massimo è, per dirla con le parole dei suoi fondatori, “un collettivo umano che produce arte creando un luogo di incontro tra diverse economie artistiche. Uno spazio di produzione indipendente interessato a creare nuovi racconti del presente. Un collettivo umano che produce arte a partire da materie, velocità e temperature diverse.”

A Carico Massimo ho incontrato donne e uomini che vivono e si nutrono d’arte quotidianamente, che sottraggono questo spazio difficile, scomodo, fatiscente, alla salsedine che arriva dal mare e con il libeccio erode ogni cosa, arrugginisce, sgretola anche i materiali più solidi e affatica la tempra dei più forti.

Per realizzare questo workshop, insieme ai giovani artisti selezionati (Andisheh Bagherzadeh, Gabriele Gaburro, Simone Palmaccio, Giulio Rossi, Eleonora Rotolo), Hans ha trascorso un periodo in città. Non conosceva bene Livorno e ne è rimasto –come accade spesso e in maniera inaspettata– affascinato e incuriosito.

La conoscenza della città è avvenuta in maniera empirica e vagabonda, senza tralasciare la tradizione culinaria che ne rappresenta una delle identità culturali più schiette e profonde, e per cui i membri di questo collettivo hanno un forte rispetto e una cura devota (trasformando le inaugurazioni o le occasioni di fund raising in contest culinari di alto livello).

Nel suo peregrinare Hans ha finito per essere attratto da un luogo nascosto, negletto, inutile perché ormai inservibile, quasi sepolto dal cavalcavia che passa sopra Carico Massimo: un vecchio ponte risalente alla fine dell’800, detto della Dogana.

Entrando dalla cancellata che conduce agli ex Magazzini Generali, e percorrendo tutta la strada sterrata che li attraversa, si arriva all’ultimo fondo che ospita Carico Massimo; ancora oltre si trova un muro cieco oltre al quale scorre uno dei canali cittadini, e sopra di esso il viadotto, che fanno da quinta a un ponticello, che a vederlo lì ci si chiede chi ce l’abbia messo, e a quale scopo. Il ponte era lì prima del cavalcavia! Ed è rimasto incastrato da questo colosso che lo corona come un pesante baldacchino senza fronzoli. Livorno è una ragnatela di ponti e fossati, coronati qua e là da bastioni, progettati per strappare terra al mare e usare i canali come vie di comunicazione.

Avendo un porto molto attivo è stata bombardata duramente durante l’ultimo conflitto mondiale; le sue strade hanno subito ricostruzioni e nuove sistemazioni nel secondo dopoguerra, e il cavalcavia fa parte di questi.

A guardare questo ponte Hans deve essersi fatto delle domande e, nel cercare insieme ai suoi “discepoli” risposte, ha realizzato con loro un progetto peripatetico, fatto di passi e pensieri. Dopo aver ricostruito la vicenda del ponte attraverso la consultazione di documentazione rinvenuta all’Archivio di Stato di Livorno, lo hanno percorso, esplorando quel tragitto circolare che esce dallo spazio di Carico Massimo, scende dalla scala mobile (una scala mobile nel senso letterale del termine, perché provvista di ruote), si addentra verso il fondo del cortile, imbocca la passerella, la percorre e ne ridiscende per tornare al punto di partenza.

Da questo cammino è nato un video girato da Schabus con il suo iphone, senza editing successivo, come una documentazione in presa diretta di un’azione che ci vuole testimoniare la presenza di questo ponte misterioso e del “mare agitato” che lo circonda. Il percorso di questo tragitto è infatti costellato da oggetti di diversa natura, materiali da costruzione, scarti e ferramenta varia.

Tutto questo rappresenta metaforicamente le acque agitate da cui il progetto prende il titolo. Come se il ponte fosse un luogo da cui domare il caos, un punto di vista sicuro dal quale cercare di dare un senso al disordine.

I materiali accatastati nel passaggio, abbandonati o temporaneamente parcheggiati, sono stati raccolti e trasportati da Schabus e i suoi studenti, compiendo un percorso in senso antiorario di fronte all’entrata di Carico Massimo per essere poi depositati all’interno seguendo il senso orario; mimando così tra esterno e interno il tracciato di un ingranaggio meccanico, che disegna idealmente un otto allungato, come il simbolo dell’infinito.

Questo ammasso variegato di oggetti è confluito in un’installazione “reversibile e in prestito”, una sorta di griglia, dove essi sono stati suddivisi per tipologia, composizione, forma, colori, che hanno messo in evidenza il gusto classificatorio che caratterizza molta arte contemporanea concettuale. Travi di legno, tubi di ferro, tubi in PVC, reti metalliche, mattoni, tramogge di plastica di diversi colori, sacchi di cemento, secchi, pallets, sono stati sistemati nel tentativo di dare loro un ordine apparente, accostandoli ad alcuni pezzi misteriosi come la porta di una vecchia macchina da cucire, due antiche stadere, una sacca di iuta colma di chicchi di caffè, un’altra con chiodi di garofano, una scatola contenente cannella, reperti di scambi commerciali che per qualche motivo si sono interrotti.

Tra gli oggetti trovati uno è stato sottratto al “mare di acque agitate”. Si tratta di quel che resta della seduta in plastica di una sedia rotta. Essa è diventata la seconda opera materialmente “prodotta” (perché tutto il resto è stato rimesso al suo posto originario), ed è rimasta per Hans come una nota a piè pagina del progetto, un memento sull’entropia di questo sistema aperto e chiuso, costante e continuo. A completare l’insieme di opere residuali al workshop è una fotografia in bianco e nero che ritrae il ponte visto dal suo punto più alto. Esso si trova, come abbiamo detto, sotto un altro ponte, quel viadotto che lo sovrasta. Così la fotografia può essere letta come la testimonianza di un’assenza fisica, di un vuoto di senso causato dalla privazione di presenza umana.

L’intero progetto si configura ai miei occhi, come una metafora, un gioco di specchi, dove il ponte diventa la tolda di un antico vascello, materiali e scarti sono il mare in tempesta, l’artista è il condottiero che dall’alto della sua esperienza cerca di trarre in secca il suo equipaggio (i cinque giovani artisti), consegnando loro una lezione di vita, uno sguardo nuovo sulle cose, e il ricordo di una piccola avventura in un breve viaggio.

Il viaggio è un elemento importante per Hans Schabus. Quando penso a lui lo immagino di spalle in cima a una vetta alpina che rimira l’orizzonte, proprio come il wanderer di Friedrich, con la chioma scapigliata dal vento che soffia sul mare di nebbia romantico. Lo sturm und drang che viviamo oggi è fatto da tempeste per lo più interiori e impeti in gran parte conservativi.

Così pure i viaggi dell’artista possono essere più discese introspettive che scoperte di terre ignote. Mi viene in mente il Viaggio intorno alla mia stanza di Xavier de Maistre, in cui i 42 capitoli del libro rappresentano gli altrettanti giorni di confinamento che l’autore dovette subire in seguito a una condanna per un duello, durante un soggiorno a Torino. In quei giorni di clausura forzata egli non lasciava mai la propria poltrona e, trascinandola in lungo e in largo per la stanza, descriveva mobili, richiamava ricordi, imbastiva un dialogo con se stesso, tra la sua anima e il suo corpo. Un viaggio fatto tra la veglia e il sogno, senza mai lasciare la propria camera.

Per la sua importante mostra alla Secessione di Vienna nel 2003, Schabus ha trasporta la propria “stanza” all’interno dello spazio espositivo. Lo studio dell’artista è stato replicato negli spazi del museo, ma reso raggiungibile solo compiendo un percorso di scoperta attraverso gli ambienti di servizio dell’edificio. L’accesso principale alle sale è stato sbarrato e il visitatore è stato costretto ad abbandonare le proprie consuetudini orientative per farsi guidare in un viaggio di scoperta “negli abissi”, a cui faceva da controcanto il neon che campeggiava sulla cupola della Secessione. In lettere dorate, sopra il celebre motto “Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freiheit” (a ogni epoca la sua
arte, all’arte la sua libertà) l’opera ASTRONAUT, metteva in relazione lo spazio infinito con lo spazio finito del museo, dello studio. Si compieva idealmente un percorso circolare che conduceva lo spettatore da fuori a dentro e viceversa, coinvolgendo lo spazio tutto, dalla dimensione ctonia a quella iperurania, da quella fisica a quella puramente mentale.

L’artista è un viaggiatore spaziale che non conosce confini, ma anche un pellegrino errabondo. Il pellegrino storicamente e letteralmente è colui che va per agros, percorrendo territori ignoti fuori dalle mura cittadine. Egli è uno straniero che si avvicina a una comunità sconosciuta, spesso è percepito come strano, diverso (people are strange when you’re a stranger, faces look ugly when you’re alone), e conduce le sue esplorazioni attraverso sentieri che non sono sempre quelli noti, battuti da tutti; per questa ragione, a volte, arriva in punti dimenticati, sbaglia strada, si perde e scopre luoghi inattesi.

L’opera d’arte finisce per essere spesso il racconto di un viaggio, di una scoperta, di un incontro, di un cammino, che può anche soltanto essere l’attraversamento di “un ponte sopra acque agitate, sotto una rampa verso il porto e dietro il muro di un canale, un passaggio”…


Monitor, lettore dvd, dvd, tamburo per cavi, travi
di ferro, assi di legno, tronchesi, tegole, tubo di
metallo, rami d’alberi, bottiglia di vino, elementi
della recinzione del sito, mensole per scaffalatura,
assi di legno varie, bottiglia di birra, svariate
lattine di birra, imbuto di plastica, porte di armadi,
pallet di legno, numerosi secchi di plastica, tappi
di secchi vari, pacchetto di fazzoletti, mattoni
da muro, diverse bottiglie di plastica, fattura
per materiali da costruzione, antiche macchine
pesatrici, numerose pietre, tubi in PVC, secchio
di pittura per muri, tavole di legno con della malta
sopra, sacco di juta con chicchi di caffè, sacchi
di cemento, un tubo dell’acqua, teli di plastica,
cazzuola, bottiglia d’acqua, bastoni d’acciaio,
profili angolari in acciaio, del battiscopa, bottiglie
di vetro, svariati pezzi di pannelli verniciati, pezzi
di compensato vari, contenitore di plastica per
detersivo, quattro sacchi pieni di rifiuti di plastica,
corda, catena, cassa di legno con della cannella,
pezzo di quotidiano cinese, sacco di juta pieno
di chiodi di garofano, scatola di cartone, sacco
di juta, sacco di carta con segatura, parti di
macchina da cucire, parti di recinzione in legno,
cazzuola, svariati pezzi di cartone, schienale
di un sedile, stampa su carta


A bridge over troubled water, underneath a ramp towards…
Hans Schabus
2017

€20

Un laboratorio, una mostra e una pubblicazione
a cura di Carico Massimo
Testo: Eva Brioschi
Traduzione
Eleonora Borghese
Coordinamento Editoriale
Alessandra Poggianti
Disegno Grafico
Dorothea Brunialti
Immagini: Hans Schabus, Juan Pablo Macías, Nattan Guzmán,
Federico Cavallini, Archivio di Stato di Pisa, Archivio di Stato Livorno
Stampato da Media Print, Livorno (Italia)
Febbraio, 2019

ISBN 978-888-32032-07-9

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