Paolo Baratella
Sarà una risata che vi/ci seppellirà
18 aprile 2015
Paolo Baratella a Livorno
di Paolo Emilio Antognoli
Come nelle portate di una cena c’è un antipasto e un primo, poi una seconda portata, così, in questa occasione del tutto eccezionale di una mostra di Paolo Baratella a Livorno, avremo due tempi: una prima fase parte introduttiva, testimoniale, con una selezionatissima scelta di opere degli anni sessanta e settanta, e una seconda fase a Carico Massimo, una sorta di grande portata, in cui il racconto dei due decenni precedenti sfocia in un’opera monumentale del 1982, “Vorrei e non vorrei” – da un’aria del “Don Giovanni” di Mozart.
Guttuso adorava Baratella ma non era ricambiato. Gli chiese di fare un quadro assieme, Baratella però non volle mai farlo. Vedremo tutta la storia dal suo racconto e dalle testimonianze che sono qui raccolte e allegate.
Quello che emerse fu invece un racconto monumentale, uno dei più grandi dipinti dell’arte italiana del novecento ed è quello che vedremo a Carico Massimo.
Con la richiesta di Guttuso era in gioco, per Baratella, la possibilità di diventare un pittore affermato, anche lui invitato e corteggiato nell’alta società. Era quella la grande occasione. Diventare come gli artisti romani che vedeva ai grandi ricevimenti sulle riviste patinate. Baratella vedeva Schifano «come un fotomodello e il suo lavoro come una sfilata di moda» – scrive – «L’ambiente della cosiddetta scuola romana ruotava attorno ai salotti delle varie contesse, di cui Guttuso era garante con la sua contessa personale Mimise e il suo PCI».
Ma Baratella, come ama raccontare, è «cresciuto artisticamente tra i binari del tram milanesi, le bestemmie degli scambisti per gli scambi che non funzionavano» non se la sentì di passare a quel mondo. Scrive: «la pittura è nata tra disagi di povertà e di fame, rabbia, ironia verso qualsiasi tipo di istituzionalità compresa quella del mercato». L’adesione a questo mondo, in sostanza, avrebbe significato un tradimento.
Per un momento avevo pensato a un dialogo a tre, Baratella assieme a due convitati di pietra: Guttuso e Schifano. Pensavo al Guttuso dei “Funerali di Togliatti”, ai “Compagni” di Schifano, ad alcuni grandi cicli di Baratella attorno al ‘68 (“Morte di Superman”, “Western da camera”, “Happiness”, “Come se tutto fosse finito e io fossi costretto a mangiare merda”, “Come se mi alzassi e prendessi coscienza”, ecc… soprattutto a “Cronaca di un mal di testa” – tutti quadri monumentali). Ne sarebbe emerso un confronto formidabile e anche la loro reciproca diversità. Lo scrivo a Paolo – con oggetto “convitato di pietra” – e una mattina mi risponde:
«Si, Guttuso, si Schifano [appena descritto come fotomodello], ma il vero convitato è Pasolini, il punto d’appoggio, il fratello maggiore che ha aperto la coscienza, che ha fatto guardare il mondo, la società in cui viviamo con lo sguardo critico, con il bisogno assoluto di verità. Andare in profondità per cogliere il senso reale delle cose, portarci dietro le quinte del teatro della contemporaneità». Poi concluse in questo modo:
«Sono radicato nel mio antifascismo, dato che ho vissuto da testimone, seppur bambino, dentro la guerra, nell’orrore delle fucilazioni delle quali qualche volta sono stato testimone, il terrore dei rastrellamenti attuati dalle brigate nere, la violenza squadrista, la bestialità dei soldati e della Gestapo tedesca, i mitragliamenti aerei ad personam, i bombardamenti alleati, la guerra civile, certo non prima del ‘43 quando scrivevo sui quaderni di prima e seconda elementare ‘Io amo il Duce’. ‘43, ‘44, ‘45, eravamo zombi che si aggiravano tra buche e macerie, per casa trincee scavate nei campi per essere invisibili. Mio padre, i campi di sterminio.
“Cronaca di un mal di testa” è il montare continuo del ricordo dell’orrore nella mia mente, e come se nulla fosse nei miei primi anni milanesi, le cariche di Scelba contro i lavoratori, la morte di Ardizzone…”.
È forse tra le righe di queste frasi che deve ricercarsi il percorso artistico e umano di Baratella in quegli anni cruciali della storia e tornare a riguardarlo, dallo sbarco dell’american pop alla Biennale del ’64 agli anni ottanta del grande dipinto da Carico Massimo e poi oltre fino a noi: un grande protagonista della pittura italiana del novecento.
Baratella partecipa alla pittura di impegno del dopoguerra e la trasforma. Negli anni sessanta reagisce alla pop art con una critica caustica della politica e della società dei consumi. Tuttavia non si affianca mai con il partito. E da questa posizione indipendente e pur minoritaria riesce a sviluppare un lavoro di grande innovazione, con una critica ironica, sarcastica, iperbolica – ma anche ideologica e di forte drammaticità – che utilizza i più diversi media e strumenti per la creazione finale in pittura di grandi controspettacoli, tra il grande schermo cinematografico e la grande pittura d’affresco. Difatti i modi e generi messi in opera dalla metà degli anni sessanta saranno riscoperti più tardi dal nuovo cinema (ad es. la fantascienza-erotico-politica, la commedia, il trash, ecc.).
Organizzata in collaborazione con l’associazione culturale Carico Massimo, la retrospettiva dedicata a Paolo Baratella ripercorre i due decenni fondamentali della carriera di uno tra i più eversivi ed eterodossi artisti italiani del dopoguerra, capace di trasformare la pittura cosiddetta « di impegno », reagendo alla pop art con una critica caustica della politica e della società dei consumi: un lavoro innovativo, ironico, sarcastico, ma anche profondamente drammatico e profetico; una terza via che bypassa Guttuso e Schifano, pensando a Pasolini, e si pone in bilico tra il grande schermo cinematografico e la grande pittura d’affresco, ma che soprattutto anticipa il cinema degli anni Settanta/Ottanta ed il Trash.
Paolo Baratella inizia la sua attività espositiva nei primissimi anni Sessanta a Milano, per girovagare poi tra Bonn, Parigi, Berlino, Barcellona, Basilea, Helsinki, Bruxelles, Mosca, New York, San Francisco, Toronto e Montreal. Negli anni Settanta lavora in stretto contatto con Giangiacomo Spadari, Fernando De Filippi e Umberto Mariani, formando un gruppo che, senza intenti di convergenze formali, rappresenta una delle più interessanti esperienze artistiche e culturali di quel tempo. Nel 1973 espone al Palais des Beaux Arts di Bruxelles e nel 1974 al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, mentre nel 1976 gli viene assegnata dal senato di Berlino la borsa del D.A.A.D. che darà luogo a una serie di importanti mostre nelle principali città tedesche. Baratella sviluppa la sua arte componendo vasti cicli pittorici ispirati al soggetto contemporaneo: vengono così realizzate serie di opere riunite sotto titoli significativi quali Cronaca di un mal di testa (1968), Come se mi alzassi e prendessi coscienza (1971), Vita morte e miracoli di Joe Ditale (1974), Toccata e fuga da/per il potere (1977), Bach Hotel (1980), Il 1984 & l‘officina ferrarese (1983), Oh specchio delle mie brame! (1985), Nel fertile abisso del buco nero (1986), Orfeo/Euridice (1987), Zarathustra: il viaggio di ritorno (1988), La parte mancante (1989/90), Fuga della scuola di Atene (1992), Achille e la tartaruga (1999), Nemici (2000/2003). Numerose sono le mostre in Italia, tra le quali meritano menzione le partecipazioni alla Biennale di Venezia del 1972, alla Biennale di Milano del 1974 e del 1994, alla Quadriennale di Roma nel 1986 e nel 1999 e alla Triennale di Milano del 1992. Tra le mostre antologiche si ricordano quelle alla Mudima di Milano e alle Gallerie Civiche di Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara nel 1995, a Palazzo Reale di Milano nel 1998, all’area esposizione Zona Servizi Territoriali di Castelfranco Veneto, alla Galleria Soave di Alessandria nel 2002 e a Palazzo Guasco di Alessandria nel 2003. Dopo aver insegnato per dieci anni alla Accademia di Brera di Milano, oggi Baratella vive e lavora a Lucca.
Un progetto organizzato in collaborazione con Paolo Emilio Antognoli, CCH e Gianni Schiavon